L’Italia è il modello da non seguire
Posted: 24 Apr 2011 01:21 PM PDT
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Anni di stagnazione e mancanza di riforme delineano un panorama di scarsa crescita
Ci fu un tempo in cui Roma era la potenza economica, militare e politica che dominava il mondo. Oggi gli esperti considerano l’Italia il malato d’Europa, ed alcuni vanno persino oltre affermando che l’Italia è il tallone di Achille dell’Eurozona.
Gli argomenti non mancano. È vero che l’Italia è stata una delle economie europee più colpite dalla crisi finanziaria. Essendo un’economia assai dipendente dal suo settore estero ed essendo questa una crisi contingente a livello globale, l’Italia si è trovata senza fonti alternative di crescita. Le esportazioni hanno registrato la peggior contrazione dalla Grande Depressione, tanto che, secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale (FMI), l’economia è scesa dell’1,3% nel 2008 e del 5,3% nel 2009. Ma il problema della crescita italiana viene da lontano.
Negli ultimi 15 anni l’Italia ha avuto una crescita superiore al 2% solamente in tre occasioni e il FMI non prevede che ciò torni ad accadere prima del 2017. Un documento di lavoro dell’organismo (Oltre la crisi: valutare il danno in Italia, di Hannan Morsy e Silvia Sgherri), rivela che tra il 1995 e il 2007 la crescita media annua dell’economia italiana è stata dell’1,6%, cosa che presuppone una notevole discesa rispetto al 2% registrato in media nel decennio anteriore. Per quest’anno, il FMI prevede una crescita dell’1,1% e di un 1,3% per il prossimo. Si tratta, in definitiva, di un modello di crescita a forma di “L” che ha portato ad ostentare il dubbio onore di essere il secondo Paese con la crescita accumulata più bassa dell’ultimo decennio (2,43%), sorpassato solo da Haiti (-2,39%) e seguito dal Portogallo (6,47%).
La deludente crescita dell’Italia nell’ultimo decennio è dovuta, in gran parte, alla “bassa produttività”, spiega Morsy. “Il contributo della produttività al PIL si è andato progressivamente riducendo e si è prodotto in tutti i settori dell’economia, ma è stato specialmente pronunciato nell’industria e nei settori non commerciali”, chiarisce. “La produttività è, senza dubbio, il tallone di Achille dell’Italia”.
È vero che l’economia alpina conta su di un vigoroso tessuto industriale formato da imprese di medie dimensioni, in gran parte di carattere familiare, che hanno fatto del simbolo Italia un marchio di riconoscimento a livello mondiale. Ma molte di queste aziende affrontano le crescenti pressioni delle economie emergenti, con prezzi più bassi e un maggior uso della tecnologia, cosa che ha portato a subire una considerevole perdita di competitività [Vedi grafico allegato, in cui quanto maggiore è l’indice, maggiore è la perdita di competitività].
C’è una spiegazione, secondo gli autori del documento del FMI, a questa performance negativa:
“riforme del lavoro che hanno incrementato il carico regolamentario del mercato del lavoro, e il peso della burocrazia, delle tasse impositive relativamente alte che disincentivano l’offerta lavorativa e l’investimento in un tessuto industriale che limita l’azione delle economie di scala e il trasferimento tecnologico,” indicano gli autori del documento.
Il lato negativo di una crescita ad “L” come quella che si sta verificando in Italia è che accentua gli squilibri dell’economia e riduce la capacità di risposta dello Stato. Il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, ha ammesso la settimana scorsa che a meno che l’Italia non raggiunga un tasso di crescita annua del 2%, non potrà affrontare il problema del debito pubblico, che era intorno al 118,9% lo scorso anno. “Se la crescita è intorno al 2% annuo, la normativa [comunitaria] del debito può essere rispettata, sempre che si rispetti l’obiettivo di deficit”, ha assicurato Draghi.
Quest’enorme carico di debito pubblico ha impedito, come fa notare Giovanni Ajassa di BNP Paribas, che l’Italia applicherà una politica decisiva di piani di stimolo in risposta alla crisi finanziaria. “Al contrario della Germania, il motore dell’economia in Italia ha funzionato attraverso un unico cilindro: le esportazioni. Così è stato nel 2010 e così succederà nel 2011 e nel 2012, dato che il margine per un’espansione maggiore si vedrà limitato dalla debolezza della domanda interna e dalle conseguenze di una politica fiscale cauta”, indica. “Il lento progresso dell’attività economica impedirà che l’Italia vada riducendo il suo differenziale di crescita con i principali soci dell’eurozona”, segnala Ajassa in un recente rapporto sull’economia alpina.
I dati corrispondenti al primo trimestre indicano che la debolezza si sta accentuando: la produzione industriale retrocede, le vendite al dettaglio calano, le esportazioni nette sottraggono 9 decimali alla crescita del PIL, dato il forte impulso delle importazioni (3,5%) – tra l’altro , a causa del conto energetico -, e una debole domanda interna di fronte all’assenza di nuovi posti di lavoro. “Un recupero zoppicante”, sentenzia Ajassa.
Se non si può dare impulso alla crescita attraverso riforme strutturali costruite ad arte, sarà necessario portare a termine un accordo fiscale considerevole”, avverte Morsy. E non sembra che questa sia la maggior preoccupazione del Governo in questo momento.
[Articolo originale "Italia es el modelo a no seguir" di Alicia Gonzáles]
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